Il vento che mi sfiora è gelido.
Ha piovuto tutto il giorno, è normale che sia così freddo. E’ normale che io sia bagnata fino al midollo e che tremi.
Avrei potuto restare a casa, ma quel luogo è così deserto, così silenzioso che mette paura.
Quella che mi è stata insegnata a chiamare “casa” è una prigione, una prigione di cristallo che sembra irreale. Tutto così perfetto, tutto così silenzioso, tutto così vuoto.
Sono scalza, le mie scarpe sono troppo bagnate da indossare, meglio vagare scalza per il molo che immersa in due pozzanghere. Il sole sta tramontando, ormai la mamma sarà tornata.
Chissà se si è ricordata che oggi c’era il colloquio con gli insegnanti.
Chissà se si è accorta che io non ci sono.
Ho fatto in fretta a tornare a “casa”. Ho le chiavi nella borsa, ma qualcosa mi impedisce di entrare in casa. Un catenaccio, si quello che mamma usa per chiudere la porta la notte, in modo da essere più sicura nella sua prigione di cristallo.
Se ha chiuso con il catenaccio vuol dire che si è dimenticata che io sono fuori oppure…
Non si è accorta che non ci sono..
Busso alla porta e mia madre arriva lentamente, senza fretta, apre la porta e si allontana.
Non mi rivolge la parola, si dilegua immediatamente, probabilmente sta cucinando. Eppure io sono fradicia, scalza e con gli occhi azzurri arrossati.
Perché mamma, non ti sei preoccupata per me? Perché non sei corsa su per le scale a prendere degli asciugamani e non sei venuta vicino a me, abbracciandomi, domandandomi cos’era che mi preoccupava? Lo sappiamo entrambi perché, ma mi sembra così ingiusto.
Non mi hai detto niente, probabilmente ti sei dimenticata del colloquio con gli insegnanti.
Non ho voglia di entrare, non voglio essere imprigionata, non oggi almeno, ma ormai sono qui.
Mi ritrovo nella mia stanza, attaccata al telefono.
- Pronto? -. La sua voce, la voce di uno dei tanti, in fondo loro mi trattano da persona speciale ed io ne ho bisogno per non impazzire di dolore.
- Ciao -. La mia voce è così fredda, ma a loro non importa.
Io davvero ce l’ho messa tutta, voti alti, niente ragazzi dalla brutta reputazione, tutto quello che una madre si aspetta dalla propria figlia.
Lo sai? Tutto questo l’ho fatto unicamente per essere accettata da te mamma, ma non è stato abbastanza ed io, ora, sono stufa di lottare contro la marea del mare.
- Ciao piccola, come stai? Mi fa piacere che tu abbia chiamato. Stasera sei libera? -.
Mamma, lo so che te lo sei ricordata. So che oggi, sedici anni fa, io sono nata e ti ho rovinato la vita. E per questo ti chiedo scusa, ma affrontare tutto questo da sola, io non ce la faccio. Preferisco scappare…
- Sì…-.
Per te mamma, se io non fossi nata sarebbe stato meglio, lo so, per loro invece sono speciale, davvero speciale. Mentre mi stringono, mentre urlano il mio nome avvolti dal piacere, nonostante la tristezza del mio cuore, sono felice, perché so di non essere un giocattolo rotto, mi rendo conto che la mia esistenza non è del tutto inutile…per quanto sia disgustosa.
Non sono un giocattolo rotto, sono una bambola, una graziosa bambola di porcellana che spera che un giorno la noterai per quello che realmente è, e non per come appare.
Scendo le scale velocemente, sbatto la porta. Volevo che tu mi sentissi, volevo che mi gridassi di fermarmi. Invece regna il solito silenzio irreale là dentro forse interrotto un attimo dallo sbattere della porta.
Però mi stai osservando, incontro i tuoi occhi neri.
Il nero e l’azzurro si mescolano, riesco a leggere il tuo sguardo mamma.
Dimmi la verità, non importa che tu mi abbia cresciuta vero? Non abbiamo legami di sangue, non importa che tu sia stata colei che ho chiamato mamma la prima volta, vero?
Non riuscirai mai ad amarmi, non è così? In me, vedrai sempre l’ombra della donna che ti rubò tuo marito.
Mio padre…
